In queste giornate, in cui sembra trionfare il panico da Coronavirus si può e si deve produrre un’informazione caratterizzata da logiche che non siano solo quelle delle vendite e dell’ascolto
In questi giorni del Coronavirus, oltre alla paura e – su tutto – la sofferenza di chi ha perso i propri cari in modo inatteso, stiamo vivendo un caso da manuale studiato nelle ricerche sui fenomeni che riguardano la comunicazione. Ossia: come fare comunicazione corretta nei contesti di crisi acclarata? Potrebbe sembrare una questione tecnica, da tavolino per esperti. Ma in realtà, come appare scontato, riguarda molti aspetti della vita quotidiana. Come capire quando sta esplodendo la crisi? Chi sono i soggetti responsabili e con quali ruoli? Come intervenire efficacemente? Cosa fare o non fare? Cosa temere realmente? Come distribuire correttamente le risorse che si hanno (sempre, per definizione, scarse…)? Come gestire le azioni indirettamente coinvolte dalla situazione di crisi, e così via. Insomma, la comunicazione in questi casi è fondamentale.
La prima riflessione che viene spontanea fare è proprio questa: è sbagliato se non addirittura delittuoso considerare in fondo il grande flusso comunicativo ininfluente sulle decisioni di singoli e collettività. Se c’è ancora qualcuno che, giocando su ruoli e responsabilità, ancora pensa che i media non siano poi così decisivi nei comportamenti e nei pensieri delle persone, ebbene, questo qualcuno sia accompagnato alla porta…
Si guardi semplicemente ad alcuni fenomeni come allo scriteriato accaparramento di beni di consumo quotidiano (perché poi…?); con conseguente aumento speculativo dei prezzi; all’eccessivo numero di telefonate che intasano i numeri verdi; alle accuse e aggressioni a persone che, solo per fattezze somatiche, sembrano provenire da paesi a rischio; allo sconquasso sulle iniziative economiche, formative, culturali e civili in zone dove non ci sarebbe alcun rischio; e così via.
Ecco: il clima, l’humus di pensiero è senz’altro determinato dai tempi, l’intensità e le modalità di linguaggio che il sistema pervasivo della comunicazione ha ormai instaurato con sommi effetti sullo spirito dei giorni.
Ora si tratta di capire come una coscienza bene formata, degli operatori della comunicazione può agire per (diciamo così) la “riduzione del danno”, che, per altri fenomeni gravi che conosciamo, significa davvero non tanto eliminare le cause della gravità, ma anche soltanto far sì che gli effetti negativi connessi siano il minore numero possibile e di minor peso.
Partiamo intanto col dire che non sono solo responsabili i giornalisti, ma anche produttori, registi, operatori dei programmi televisivi (specie quelli pomeridiani, i più visti dalla popolazione fragile e – in questo caso – più vittime del virus): i toni, l’uso d’immagini e musiche, la reiterazione di alcune parole, le interviste allarmate, certe inquadrature creano sì, ascolti, ma anche tanta, tanta paura. Se ne può fare a meno, anche a costo di rinunciare a qualche punto di share? Si può considerare che l’etica che impone un registro civile del proprio comunicare sia un imprescindibile postulato anche per i non giornalisti? Albo o non albo, qui si parla di vita, e i codici devono servire al di là delle appartenenze professionali. Per non parlare poi dei social network, ma qui si apre un discorso più grande…
Secondo: i giornalisti della cosiddetta carta stampata non sono stati da meno da logiche simili: “Italia infetta”; “Virus, il Nord nella paura”, “Vade retro virus”; “Contagi e morte, il morbo è tra noi”, sono soltanto alcuni titoli di questi giorni drammatici. Per fortuna c’è stata tanta informazione seria, ma il rischio dell’inseguirsi nel peggio è sempre più alto. Davvero alcune copie in più di vendita giustificano meccanismi di questo tipo? È sempre stato così, si dice, è la crisi delle vendite di questi ultimi anni ha aggravato il fenomeno. La competizione a chi grida di più con più efficacia non sarà placata neppure da qualche appello all’etica. Non siamo d’accordo, anche solo per la semplice ragione che, negli effetti apocalittici generali che si creano quando il panico prende piede, a perderci sono tutti, giornalisti e giornali compresi. Quindi conviene abbassare i toni, dire qualche parola di prudenza e tranquillizzante, anche se in cuor proprio non si è sicuri.
Ma è il confine che diventa difficile stabilire: per chi scrive e impagina un giornale o un telegiornale, stabilire quale sia il momento di fermarsi, di non andare oltre e di ridimensionare i propri lavori (a parte il fatto che negli anni passati in ogni sana redazione giornalistica venivano giustamente banditi – a prescindere – aggettivi e avverbi esagerati, iperboli, ecc…), non è cosa semplice, che si possa codificare in uno schema da appendere al muro e seguire diligentemente. Vero, ma occorre, a mio avviso, fare due operazioni contigue e contestuali.
La prima è senza dubbio lavorare senza piegarsi totalmente alla logica della velocità, del ritmo che alimenta e giganteggia oggi nell’intero globo della comunicazione. Arrivare primi, subito, vincendo sui concorrenti, non curandosi della correttezza dell’informazione che verrà poi comunque rivista. Si lavora al minuto ormai, e non sull’ultima ora. Con un titolo/slogan veloce, che trionfa sull’approfondimento. In casi come questi, la regola, non scritta, ma che gli addetti ai lavori conoscono bene sulla propria pelle, dovrebbe essere messa in un cassetto.
E poi l’uso di esperti, dati, statistiche, opinioni di soggetti che hanno un pensiero diverso da quello dominante. Un pensiero razionale e non emotivo. In alcune sagge scuole di giornalismo si invitano gli studenti ad utilizzare normalmente le opinioni di esperti più che degli opinionisti di grido e di facile appeal. Ma a volte sembrano consigli – appunto – accademici, che non trovano spazio nelle cucine redazionali. Ecco: forse è proprio vero che questo è il momento di utilizzarlo con forte impegno e convinzione. C’è una valanga di dati e di informazioni (tipo: questo virus non ha una mortalità più alta di quelli che lo hanno preceduto nel tempo), che si possono utilizzare e servono, forse non a tranquillizzare, ma almeno a introdurre, appunto, antidoti efficaci contro la paura. In dosi rilevanti possono avere effetti positivi.
Scriveva agli inizi del secolo scorso il lungimirante politologo e giornalista statunitense Walter Lippmann, maestro di tanti di noi che pur svolgono questo mestiere a distanza di tanti anni: “… se nella collettività, presa nel suo complesso, manca una crescente consapevolezza del fatto che il pregiudizio e l’intuizione non sono sufficienti, l’elaborazione dell’opinione realistica, che richiede tempo, denaro, fatica, sforzo cosciente, pazienza ed equanimità, non troverà appoggi sufficienti. Questa consapevolezza cresce a mano a mano che aumenta l’autocritica, e ci rende coscienti delle parole vuote, ci fa disprezzare noi stessi quando le impieghiamo, e ci fa stare all’erta per scoprirle. Senza un’inveterata abitudine ad analizzare le opinioni quando leggiamo, parliamo e decidiamo, la maggior parte di noi non sospetterebbe la necessità di idee migliori, non se ne interesserebbe quando apparissero e non riuscirebbe a impedirle che si manipolasse la nuova tecnica dell’informazione politica”. Parlava di politica, certo, ma si può dire che siano saggi principi applicabili anche in altri settori?
E poi c’è un ultimo frame (cornice all’interno della quale porre con efficacia il proprio lavoro) che è (e questo ci viene spontaneo per quello che abbiamo da tempo scritto su queste pagine), un “di più” di collaborazione fra cittadini e istituzioni. Noi lo abbiamo sempre detto che la logica del conflitto fra fronti contrapposti, non è sempre un valore, anzi. Se in qualche caso bisogna affermare diritti e doveri anche indicando con coraggio responsabilità ed errori, la logica normale per far funzionare le nostre comunità dovrebbe essere quella di individuare problemi e soluzioni pur da posizioni diverse, ma sempre con la certezza che, condividendo esperienze e competenze, si ottiene il meglio. È naturale. È la storia dell’umanità che ci offre questo tipo di visione. Amministrando insieme spesso si ottengono risultati migliori.
Indicazioni più che utili, determinanti, in maggior misura quando ci si trova di fronte a crisi estreme, quando è la stessa sopravvivenza dei singoli ad essere messa in discussione. Quando i media, e i protagonisti che in essi stazionano per il racconto che si fa delle loro azioni, parole e scelte, vivono invece la logica dei fronti contrapposti, divisi, nemici, che non si riconoscono affatto reciprocamente, ecco, allora è proprio difficile far passare l’idea del Bene comune. E, va da sé, la salute e la sicurezza dei cittadini sono il massimo del Bene comune.