Se qualcuno, in buona fede, crede ancora che il rapporto con le istituzioni (in crisi di legittimità, potenzialità e credibilità) debba necessariamente passare attraverso conflitti – civili, per carità – tra i cittadini e i loro rappresentanti, è bene che faccia un ripensamento. Lo testimoniano decine di vicende, nazionali e non, in cui lo scontro tra il potere costituito legittimamente e i cittadini indispettiti o persino esasperati da corruzione e mala gestione, non solo spesso non produce i risultati attesi, ma – a volte – aggrava le condizioni di partenza, impedendo la ricerca di soluzioni idonee a beneficio di tutti. Intendiamoci: il conflitto, la divergenza aspra, la contrapposizione dura, in democrazia, quando sono praticate (non ci piace chiamarle armi, a maggior ragione in questo caso) con gli strumenti giusti e le regole stabilite, sono il sale dei processi democratici.
Ma nessuna pietanza può essere caricata di sale senza diventare immangiabile. E, fuor di metafora, non si può esaltare, come si faceva un tempo, il conflitto in sé, senza rischiare di ammalare la democrazia e renderla, di fatto, un terreno impraticabile, fino al limite del rischio della cancellazione quando la soglia di sopportabilità sociale dei conflitti viene superata.
Si guardi a un esempio recente, banale, se si vuole, ma poi non tanto; e, forse, proprio gli esempi più banali portano con sé caratteristiche di verità che, a volte, i grandi eventi finiscono per camuffare o trascurare.
Ebbene, quando a Torino, il 22 marzo scorso, durante una manifestazione per la mobilità sostenibile (uno di quei temi forti che in tanti, a prescindere dal colore politico di appartenenza, si affannano a sostenere come un “bene comune” da perseguire e tutelare), i partecipanti alla “critical mass” sono stati assaliti dalla polizia in tenuta anti-sommossa e fermati come delinquenti comuni, a molti è apparso evidente che c’era qualcosa di molto grave che non andava. Le discussioni seguite sono state tante. Al momento in cui scrivo, però, non ho ancora letto né sentite le scuse, ma può essere una mia mancanza. Un dettaglio.
Fatto sta che la presidente della Federazione italiana amici della bicicletta, Giulietta Pagliaccio, nell’intervista pubblicata su Repubblica il giorno dopo, sotto l’incalzare delle domande del giornalista che le chiedeva come si può risolvere il conflitto tra automobilisti e ciclisti che sempre più intralciano il cammino dei primi, dice a mio avviso due cose interessanti: “Dobbiamo imparare a condividere degli spazi. Purtroppo chi ha una macchina pensa che la strada sia sua, ma non è così.” E qui suona già dolce e consueto alle nostre orecchie questo verbo “condividere”, nella precisa consapevolezza che, in sua assenza, è sempre il più forte, in questo caso l’autista chiuso nella sua potente scatola di lamiere, che fa paura all’utente “scoperto” delle due ruote, ad avere – diciamo così – l’ultima parola. E poi la presidente della Fiab aggiunge: “Il cambiamento culturale avviene anche attraverso nuove regole, per questo chiediamo un nuovo codice della strada che metta al centro la persona e non l’auto, ma anche un cambiamento di come si pensano le città che oggi sono fatte per le vetture private”. È vero: fortunatamente non tutte le città, (e non al cento per cento), sono asservite al potere delle quattro ruote; ma è anche vero che il dominio delle auto private (e quindi dei tempi di una città, degli spazi adibiti ad hoc, del flusso dei mezzi pubblici, degli investimenti pubblici, delle regole, ecc) condiziona in modo determinante tutta la vita delle comunità.
La norma, è storia antica, raramente anticipa i comportamenti, spesso li accompagna e poi li codifica. Ed è una cultura che si determina, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, con il frequente e paziente lavorìo formativo ed informativo di tanti soggetti: centri culturali (scuole, università, centri di ricerca); associazioni, parrocchie, partiti (quelli rimasti), sindacati (quelli attivi anche sulla formazione), scrittori, opinionisti, e, soprattutto oggi, i media, piccoli, medi o grandi che siano, analogici o digitali, vecchi e nuovi.
Quelli – per farla breve – gestiti e orientati, eccoci di nuovo al punto, da uno dei classici criteri di notiziabilità o “valori notizie”, che nelle scuole di giornalismo s’insegnano come criteri di base per stabilire quando un fatto può diventare notizia: la conflittualità. Tanto più, s’impara quando si è ai primi passi della cucina redazionale, un evento fa emergere le differenze di vedute e d’interessi e – se possibile – anche i conseguenti scontri tra i portatori di essi, ecco, tanto più funziona la notizia come garanzia di successo. Di fronte a questo incontrastato meccanismo le “Voci in comune”, ossia le Parole dell’Amministrazione condivisa (ricorda qualcosa?) non hanno diritto di cittadinanza nel nostro mondo dell’informazione.
Non credo che sia una sterile lamentazione di chi fa fatica a sfondare nell’ordinario mainstream del grande circuito dell’informazione. Ma, se si vuole, accusate pure chi scrive di “excusatio non petita…”. Ovvero che di fronte agli esiti precari di un lavoro continuamente da rivedere, quello cioè di constatare quotidianamente la fatica di comunicare il grande valore di Regolamenti, Patti, accordi, progetti, intese, reti che a migliaia si diffondono in Italia, di fronte a inciampi e ostacoli è anche possibile che si scelga la strada di attribuire … “al sistema” le responsabilità di una parziale se non proprio fallimentare efficacia.
Ma – onestamente – il pensiero qui tracciato trae invece origine dall’insegnamento di un grande giornalista che non c’è più, Emilio Rossi, direttore del TG1 dal 1976 al 1980. Anni, quindi, non proprio di pace per il nostro travagliato Paese. Il direttore, proprio a partire dalla sua esperienza maturata dall’alto della principale testata d’informazione in Italia, traccia nel libro L’undicesima Musa (Rubbettino editore, 2001) una sorta di carta d’identità del professionista che vuole andare al di là della sua mera funzione (pur legittima, per carità) di cronista. Rossi scrive (mi si passi la lunga citazione, ma è necessaria nella sua integrità):
“Scopo della comunicazione d’attualità … è aiutare a vivere in società, a sentirsi uomo tra gli uomini, cittadino fra i cittadini, consapevoli di essere titolari di diritti e di doveri. È attirare l’attenzione critica su problemi emergenti o comunque meritevoli d’interesse. È istituire un controllo sociale, denunciare bisogni, soprusi, illegalità, segnalare valori e bellezze o sfregi, diritti e doveri, promuovere programmi, partecipazione, coesione, reciproco rispetto e solidarietà verso i deboli, i “feriti della vita”. Insomma una società democratica ha bisogno di un’informazione capace di prevenire e vigilare, ma anche di svolgere un ruolo positivo che le permetta di sollecitare interesse per la cosa pubblica; aiutare i cittadini a capire contenuti e prospettive dei pubblici affari; diffondere cultura di legalità, anzi di etica sociale, addestrare e appassionare a un dibattito corretto; incoraggiare la partecipazione ai vari livelli associativi e istituzionali; fondare e alimentare lo spirito pubblico”.
Nelle “aspre” discussioni che a volte s’intavolano tra colleghi sulle funzioni attuali del giornalismo, quella di “fondare e alimentare lo spirito pubblico”, non solo appare ingenua e ormai impraticabile, ma persino incongrua e inopportuna per un giornalista. Che, per questa visione minimalista se non proprio cinica del mestiere, deve limitarsi a raccontare e lasciare che altri deducano, interpretino, formino, educhino. Chi scrive, invece, in tutta sincerità pensa che oggi, proprio in questa società con palesi bassi livelli di credibilità delle sue istituzioni, ci sia quanto mai “bisogno di un’informazione capace di prevenire e vigilare, ma anche di svolgere un ruolo positivo che le permetta di sollecitare interesse per la cosa pubblica; aiutare i cittadini a capire contenuti e prospettive dei pubblici affari”.
Per migliorare la qualità della comunicazione servono certamente regole, direttive, strumenti e modelli di finanziamento garanti del pluralismo e della trasparenza. E – mettiamola così – questo è l’hardware. Ma serve anche – il software che rende utile il primo – un deciso cambio di passo proprio su quel terreno, sempre più delicato, del Discorso Pubblico che trasmette, volenti o nolenti, un’immagine di comunità che – lungi dal nascondersi criticità – mette anche in risalto e in buona luce il positivo per contribuire a costruirla nell’interesse di tutti.
Il romanzo di Italo Calvino, le città invisibili si conclude con un dialogo illuminante. Al Gran Khan sfiduciato che sostiene l’inutilità della ricerca di città lontane, che per lui non può che portare all’incubo dell’inferno, Marco Polo, a conclusione del suo viaggio immaginario risponde serafico: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che già è qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
La comunicazione sapiente non può che essere d’aiuto ad accogliere e perseguire questo prezioso rischio del “riconoscimento”.
Vittorio Sammarco